E’ una Domenica di fine maggio e torno a volare dopo più di un anno. Con le tre ore del volo di linea Roma-Istanbul cerco di dimenticare mesi e mesi di piedi per terra, riassaporando l’ebbrezza di dribblare le nuvole prima dell’atterraggio in un luogo lontano. Di nuovo, tutto si consuma nel solito attimo: si concludono le manovre di atterraggio, si attivano vecchi e nuovi protocolli, si ritira il proprio bagaglio. Sono con altri colleghi e tutti insieme proseguiamo spediti per intraprendere un cammino attraverso strade sconosciute del paese che ci ospita.

Sono settecentoventi i chilometri che servono per arrivare alla nostra prima destinazione: siamo diretti in Cappadocia – nel cuore della Turchia – l’Occidente da un lato e l’Oriente dall’altro. Il viaggio è ancora lungo, il fuso orario ci obbliga a spostare le lancette avanti di un’ora, eppure chilometro dopo chilometro cresce la sensazione che stiamo recuperando il tempo e il terreno perduto.

Dopo la lunga pausa forzata di questi mesi, era forse giusto ricominciare da qui, da una regione che sembra davvero distaccata dal resto del mondo. Perché in qualche modo questa è una terra che si perde, senza un confine preciso o una barriera che distingua nettamente ciò che è da ciò che è stato

A tratti brulla, a tratti verdeggiante, la provincia di Nevşehir restituisce quel passato – remoto e mistico – in cui era luogo d’elezione per chi fuggiva dal mondo per scelta o per costrizione.  

“Le piramidi esistono anche fuori dall’Egitto”. Ce lo ricorda Burak, la nostra guida turca, capace non solo di spiegare ogni cosa in perfetto italiano, ma di farti sentire a casa anche qui, tra le famose Piramidi di Göreme, che potrebbero benissimo trovarsi su Marte o su un set di Star Wars. E’ in questi luoghi che anacoreti e cristiani eremiti, a caccia di una terra spirituale più che promessa, hanno trovato la pace che volevano. La presenza di questi uomini asceti, spesso in fuga dalle persecuzioni religiose, è ancora percepibile: questi pinnacoli di terra friabile sono stati a lungo la loro casa, ottenuta scavando tra innumerevoli strati di roccia tenera, degno lascito delle eruzioni di due vulcani avvenute milioni di anni prima. 

In Cappadocia ceneri e lapilli hanno dato vita a enormi distese di tufo; in seguito le acque, i venti, le erosioni hanno modellato e continuano a plasmare rilievi rocciosi alti anche quaranta metri, del tutto simili a coni giganteschi. In alcuni punti si ergono veri e propri funghi di tufo, talmente imponenti che un palazzo di dieci piani sarebbe un paragone plausibile, se non fosse che in cima si trovano grossi massi che reggono e proteggono la terra sottostante.

C’è una spiegazione naturale a tutto questo, ma con il tempo anche le leggende si sono depositate strato dopo strato. Chi viene qui è tenuto a credere che siano state fate e divinità celesti a mettere il “cappello” sulla sommità di piramidi che dominano intere vallate. Grazie ai “camini delle fate”, la Cappadocia si candida ad essere unica. Una terra libera, mistica, magica”.

Non solo: la civiltà bizantina ha dato un ulteriore impulso a questo “universo rupestre”. Sebbene al mondo esistano altre piramidi di terra – nei canyon americani, ma anche in Europa – quelle presenti nei borghi di Göreme, Avanos, Cavusin o nella valle di Çatalkaya, ospitavano case, chiese, eremi, tanto da costituire vere e proprie città. Il parco nazionale di Göreme, cittadina che oggi conta duemila abitanti, è Patrimonio dell’Unesco dal 1985.

E’ notte fonda, l’indomani. La sveglia si agita intorno alle tre del mattino e dopo quasi un’ora il mio gruppo si dirige spedito verso un punto preciso. Uno sguardo rapido al cielo senza una nuvola conferma quanto ci ha riferito Burak la sera prima: le condizioni meteo sono ottimali per sorvolare la Cappadocia in mongolfiera. 

Lo hanno fatto in tanti, questo viaggio dall’alto e dentro se stessi. Forse ci ha fatto un pensierino anche il Signor Fogg nel suo giro del mondo in ottanta giorni. Lo faremo anche noi ed è per questo che all’alba salto su un cesto che può ospitare al massimo venti persone”.

Il vento è leggero, la notte è ancora fredda, ma la mongolfiera è pronta a scaldarsi. Non appena la fiamma fa il suo dovere, il calore si espande e i piedi si staccano da una terra sempre pronta a scricchiolare. So bene che non avrò tante altre occasioni di cominciare la giornata volando. Nel solito attimo fuggente – che qui si consuma tra una vampata e un’altra – vedo cinquanta o forse cento mongolfiere. Mi vedono come io vedo loro: siamo tutti un bellissimo puntino colorato tra cielo e terra. Niente di più e niente di meno. Sorvoliamo anche i camini delle fate, ma questa volta le piramidi svettano sotto di noi. 

“Saremo in volo all’incirca per un’ora” – dicono – ma in realtà quassù il tempo resta sospeso e incalcolabile. Un po’ perché in cielo spunta il sole quando c’è ancora la luna. Un po’ perché nessuno ha fretta di rimettere i piedi per terra. 

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