Quando anni fa mi dissero per la prima volta che l’Oman era una meta tranquilla, continuavo a credere che la sicurezza del sultanato fosse affidata a uomini fasciati in tuta mimetica o trincerati dietro qualche checkpoint. Immaginavo un intreccio di lingue incomprensibili, una lunga serie di volti imbruniti dal perenne sole del deserto, calamita per barba o baffi per cui una certa autorevolezza si trasmette inevitabilmente di generazione in generazione. Poi di colpo è arrivata lei, la “classifica delle classifiche” stilata dal World Trade Forum, che posiziona l’Oman alle soglie del podio dei paesi più sicuri al mondo: davanti il solito paio di paesi scandinavi. Dietro, invece, tutti gli altri. Si può arrivare alle pendici del K2, quindi – penso – si possono scalare ben altre montagne. Ad ogni modo solo i diretti interessati possono confermare o smentire – con i fatti – dicerie sul loro conto, e il sultanato non fa eccezione.

Quasi subito dopo il mio arrivo, la prima lezione che imparo dalla grande capitale Muscat è che da queste parti l’aria è buona. C’entrano gli incensi e le spezie, il merito spetta anche al mare e alle sue brezze, ma l’aria buona da queste parti si può toccare con mano. Nel grande bazar della capitale, il Muttrah Souq, i ragazzi mi passano davanti in dishdasha, le tuniche di cotone che arrivano fino alle caviglie. Qui nel bazar, proprio dove i colori si riproducono come le forme di un caleidoscopio, spicca soprattutto il bianco – colore predominante – che si interrompe solo grazie ai ricami sinuosi sui polsi dei caffettani. Da un lato del collo pende una piccola nappa profumata, la furakha: sembra nata per spezzare l’innocenza del bianco vivo e aggiungere un tocco di malizia.

“Sono vestiti tutti allo stesso modo” – ripete l’ anonima occidentale non lontana. Dimentica, evidentemente, che in quello stesso istante migliaia di donne in tutto il mondo indossano le stesse scarpe da tennis che stringono i suoi piedi. 

Vorrei invitarla – ma mi astengo – a  guardare più da vicino le giovani donne che indossano abiti colorati e con frange corte, pantaloni di seta morbidi, un velo che lascia il volto scoperto. In realtà, i giovani omaniti stanno dando a me – come a lei – una seconda lezione: si può indossare un abito tradizionale con vanto. Sanno che in dishdasha non si distingue il più povero dal più ricco, anche se nelle loro città sempre più accoglienti e tradizionalmente cosmopolite la povertà, in pratica, non esiste.

Le persone qui sfilano, non camminano. Insegnano che quell’andatura così disinvolta – più di mille sorrisi – è il parametro stabile per giudicare la serenità di un popolo. Ad ogni modo, l’Oman mi insegna che si può star sereni anche il lunedì mattina. Davanti a me passa un piccolo esercito bianco con il badge in mano. Al posto della più informale kumah – una papalina piena di ricami – indossano la più formale mussar, copricapo simile a un turbante. Evidentemente ricoprono ruoli e svolgono funzioni che lo richiedono.

 “Sono impiegati di banca” – la conferma dell’amico/ guida Rashid giunge tempestiva. Comunque, la scoperta del giorno è che si può benissimo lavorare in banca senza giacca e cravatta, ma in dishdasha. Una cosa in meno da dare per scontato, al ritorno.

Lasciata Muscat, ci dirigiamo nella direzione opposta all’Oceano ad est a bordo di un 4×4. Ci spingiamo verso i wadi, i grandi canyon circondati da palme e alberi da frutto. Grazie a sorgenti e cascate anche spettacolari, l’acqua è cristallina tra rocce color ocra. Ci si tuffa e ci si rinfresca anche senza ombra: si può osservare il canyon dal basso, immergendosi, o dall’alto di Jabal Shams, la montagna più alta del paese a duecento chilometri dalla capitale. I canyon sono comunque tanti e sempre diversi, ma in ogni caso è fondamentale arrivare qui attrezzati, con cibo, acqua e abiti più pesanti per le escursioni termiche. Intorno, manca tutto; proprio per questo l’aria che si respira è quella respirata in secoli – e millenni – tramontati da un pezzo. 

Nel sultanato c’è una grande considerazione del tempo che passa. Lo insegna la città cosmopolita, lo evidenziano i più giovani, lo testimoniano anche i beduini. Hussein e Ayda sono una coppia da tanti anni. La folta barba di lui e la maschera tradizionale di lei – ricorda un po’ Batman, un po’ il cavaliere di una giostra medievale – mi impediscono di calcolare la loro età, ma in fondo non conta: 

A tratti roccioso e a tratti sabbioso, il deserto insegna che chi è nato qui appartiene per sempre a questo posto. L’appartenenza è più importante dell’età: la civiltà lontana fa fatica a digerire un simile concetto.

Hussein e Ayda hanno tre figli, ma vivono in una tenda che ospita dieci persone, in un accampamento dove altre coppie hanno scelto di condividere più o meno lo stesso spazio con lo stesso numero di persone. Più che le donne, sono gli uomini ad andare e venire, per un lavoro che richiede la loro presenza anche altrove. Sotto le tende l’ospitalità è la vera essenza che si sprigiona, e si manifesta al gusto di datteri e aroma di caffè offerti al visitatore. Sulle braccia delle donne si sente il tintinnio dei bracciali mentre si scrollano di dosso le solite faccende domestiche. Ayda porta avanti tutti i giorni – imitata dalle vicine – piccole transazioni commerciali che prevedono vendita di accessori, polveri per la cosmesi e souvenir. Hussein scarrozza qualche occidentale in groppa ai suoi dromedari, ma anche a bordo di veicoli a quattro ruote motrici che permettono di raggiungere la città più vicina. I figli vanno a scuola e così alcuni oggi hanno deciso di acquistare una casa in muratura. 

La lezione che mancava: nelle città come nei deserti, passato e futuro non sono in contraddizione, ciascuno trae forza dall’altro. In questo paese si respira aria buona perché c’è il rispetto per la persona e per la sua dignità. Lo stesso rispetto che permette alle strade di essere vissute in modo spensierato, anche di notte, tranquille grazie anche agli addetti alla sicurezza. A proposito, loro non sono come li avevo immaginati: fermano gli automobilisti bussando alle porte dell’auto, li salutano con un gesto cordiale e chiedono i documenti. Gentili e cortesi, si congedano e li lasciano proseguire. Non si rinchiudono dietro le trincee di un checkpoint e non indossano nemmeno una divisa mimetica. 

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