Si è chiamata Bisanzio e l’hanno chiamata Costantinopoli, in quei secoli di storia dove bisognava stabilire un confine tra Oriente e Occidente, come se dovessero essere per forza divisi. Oggi chi atterra o approda a Istanbul da Occidente non ha crociate da combattere, né tantomeno la pretesa di dover o poter conquistare questa città immensa. Qui vivono venti milioni di persone – il doppio degli abitanti di diversi stati europei – abituate a convivere sia con il traffico delle ore di punta, che con l’inevitabile incrocio di culture millenarie in strade affollate. Non appena salto sul traghetto pronto ad attraversare il Bosforo che separa l’Asia dall’Europa, l’amico Burak ci tiene a sottolineare che è qui, in questo stretto, che si incrociano il Mar Nero e il Mar di Marmara. L’acqua è straordinariamente pulita e la città non è da meno; ciascuna – penso – può ambire ad essere specchio dell’altra.

Quel ponte tra Oriente e Occidente che in tanti evocano c’è, ma resta invisibile e inafferrabile. E’ impossibile, perché più che la città dei due continenti, Istanbul si rivela la città che racchiude mille e più universi.

  Istanbul non ha due anime: la tentazione di distinguere un lato europeo da un lato asiatico è innegabile, ma anche riduttiva. Ci sono quartieri più conservatori e tradizionalisti da una parte e dall’altra, mentre distretti più vivaci e moderni animano entrambe le sponde dello stretto. Tante città nella città, dove nell’arco di un pomeriggio è possibile sia esplorare graziosi villaggi immersi nella natura che perdersi in un tour votato allo shopping. Sorpresa dopo sorpresa, scopri così che un antico villaggio di pescatori si è trasformato negli ultimi decenni in un quartiere bohémien a tutti gli effetti, frequentato da artisti e intellettuali. Forse non è frutto del caso: a Kuzguncuk hanno convissuto per secoli ebrei, greci e armeni. Tra case in legno abitate da gente semplice e laboriosa, le sinagoghe sorgono ancora accanto a chiese e moschee, in perfetta armonia architettonica e spirituale. A dimostrazione che la tolleranza è possibile sempre, e ovunque.

Il tempo trascorre in fretta e la fine di una vecchia giornata è ideale per godersi un aperitivo davanti al Bosforo o scoprire la vita mondana in locali storici che ospitano dj set internazionali. Tra un drink e una cena tipica, sorseggiando Ayran o mangiando un vero kebab, la movida turca esiste e resiste con successo, specie dopo le inevitabili restrizioni per contenere la pandemia

Niente di inusuale per una megalopoli che ingloba realtà così diverse, abituata a risplendere e cadere. Istanbul ha viaggiato sulle montagne russe nei secoli di storia; un saliscendi continuo, come le strade che dal punto più a valle ti portano in cima. E’ nel quartiere di Sultanahmet che spicca un promontorio boscoso, noto come Promontorio del Serraglio. Siamo qui per vedere – finalmente da vicino – Palazzo Topkapi, dimora per ben ventisei sultani ottomani vissuti qui fino all’Ottocento. Mi accorgo subito di non essere di fronte a Buckingham Palace o Versailles. Non è per la bandiera turca che sventola in alto, al di sopra della Porta Imperiale: questa reggia è enorme, ma incredibilmente discontinua. Un palazzo nel palazzo, che regala l’accesso a un mondo diverso dall’altro anche a distanza di pochissimi metri, attraverso le quattro porte che conducono alle quattro corti cinte da mura. Ci vorrebbe un tappeto volante per spostarsi dalla Corte dei Giannizzeri alla corte delle Cerimonie, o per muoversi all’interno dell’Harem con i suoi ambienti regali e maestosi, tra centinaia di stanze dove le concubine venivano educate prima di essere selezionate per diventare “mogli degne” del sultano. Proseguendo questo tour da mille e una notte, si attraversa la Porta della Felicità e si accede alla terza corte. Dove evidentemente non si pensava solo al benessere del corpo, grazie agli immancabili hammam, ma anche a custodire gelosamente libri fondamentali – come nella prestigiosa libreria Ahmet III – tesori importanti e reliquie religiose preziosissime.  

Se non vi bastano gioielli, candelabri dorati, diamanti famosi – gli ottantasei carati del “Diamante del fabbricante di cucchiai” pesano quasi quanto la leggenda che evoca – il Padiglione del Mantello ospita la Burda indossata dal Profeta Maometto e che il sultano Selim I portò qui da Il Cairo nel 1517

Sultanahmet, nel distretto di Fatih, costituisce la punta della penisola sul Bosforo. Il punto più alto della città è anche l’ epicentro della spiritualità di Istanbul. Qui si trova la Basilica di Santa Sofia. Ayasofya è stata cattedrale cristiana fino al 1453 – anno della caduta di Costantinopoli, città assediata come nessuna – e divenne moschea ottomana fino al 1931. Dopo essere stata museo per ottantacinque anni, dal 2020 è stata riaperta al culto islamico per effetto di un decreto presidenziale. Tra mosaici bizantini e marmi pregiati, medaglioni decorativi e colonne, la luce soffusa e mistica arriva in alto – punto di osservazione per la Moschea Blu non distante – come in basso. Dove la navata centrale, sormontata dalla cupola più imponente di tutte, sembra destinata a ricongiungere idealmente due continenti, l’Oriente e l’Occidente, il passato e il presente.

 A Piazza Taksim la vita è tornata frenetica e straordinariamente attuale. Burak si ricorda di essere tifoso del Galatasaray e mi invia un pronostico in vista degli Europei, dove Italia e Turchia sono unite e divise dallo stesso girone. Al mio fianco ci sono sempre gli amici Walter Quintavalle e Daniela Romano, così come tutti gli altri, che ringrazierò per essere stati compagni, più che colleghi, in questo viaggio destinato a proseguire. Anche dopo il ritorno a casa.